“Definire il talento è abbastanza complicato. Ma è qualcosa che si percepisce. E quella cosa che abbinata all’impegno e alla preparazione può diventare una miscela esplosiva praticamente inarrestabile”
Enrico Genovesi (link) l’ho scoperto attraverso un paio di immagini postate da Scriptphotography (link) su Facebook. Erano tre scatti. Uno ritraeva una persona sospesa in aria in posizione orizzontale come fosse un chierichetto fuori tempo massimo. La seconda ritraeva due bambine abbracciate, di schiena, in un ambiente che contrastava con la solennità dei vestiti bianchi da cerimonia. La terza era un cavallo bianco tra gli alberi al quale mancavano solo ali e unicorno, ma anche senza questi, dava l’idea di un mondo poco reale, quasi fatato.
Il successo. A volte a livello internazionale non siamo nessuno, ma a livello cittadino siamo i più forti. Spesso è determinato dalla dimensione geografica sulla quale ci vogliamo rapportare”
E, in effetti, andando a scovarne significati e provenienza, scopro invece che è tutto molto reale, anche se il nome dell’ispirazione di Enrico che ne ritrae alcuni momenti, racchiude fascino e mistero. Il suo nome è Nomadelfia (link).
Ma prima di raccontarvi di Nomadelfia, voglio soffermarmi sul talento di Enrico che lo definisce più come una predisposizione naturale: “Ammesso che sia un talento, il mio credo sia quello di sapermi rapportare nelle situazioni in cui mi trovo, con grande rispetto nei confronti degli altri, raccogliendo la loro fiducia in un clima che ci permette di lavorare bene rendendomi parte integrante del contesto. Ma questo non deriva appunto da scelte tecniche, visto che la mia mole di un metro e ottanta e l’utilizzo di un’ottica medio grandangolare mi impone presenza e vicinanza ai soggetti. È più una capacità empatica sulla quale io credo molto.”
L’empatia. Questo misterioso talento del quale sento spesso parlare, che non si studia a scuola, che non si può misurare, che può diventare addirittura un punto debole. È sicuramente una capacità straordinaria che permette di vedere oltre, di sentire anche quello che non si vede, di veicolarlo attraverso ogni nostra forma di comunicazione. In questo caso, la fotografia.
Gli chiedo quanto conti la tecnica e se il cambiare stile, dal colore al bianco e nero non sia una perdita di identità.
“Una cosa è lo stile e l’altra è il linguaggio. Lo stile si abbina alla persona, il linguaggio invece è la scelta tecnica ed espressiva. A volte essere un bianconerista può essere una scelta di stile, mentre nel mio caso è solo una scelta di linguaggio rispetto al momento e al soggetto che devo ritrarre. Lo stile è abbinato alla personalità e non è una cosa che scegli. C’è una netta distinzione quindi tra stile e linguaggio.”
Argomento interessante. Tant’è che la personalità non puoi cambiarla mentre il linguaggio si, a seconda dell’interlocutore e a chi si vuole comunicare. È pur vero che in taluni casi la scelta del linguaggio può trasformarsi in cifra stilistica.
A questo punto voglio saperne di più dell’esperienza che l’ha portato a realizzare un altro dei suoi libri fotografici (il resto delle sue pubblicazioni sul sito www.enricogenovesi.it) e, nonostante ci siano online una moltitudine di siti che ne descrivono le caratteristiche, voglio sentirlo dalle sue parole come sia stato vivere questo micromondo sospeso tra la carità cristiana e la nostra società ormai schiava di se stessa.
“Ho avuto l’opportunità di conoscere questa realtà che nasce nell’ex campo di concentramento di Fossoli e poi trasferitasi in provincia di Grosseto, dall’idea di Don Zeno Saltini (link), un prete controverso e rivoluzionario che reinterpreta e ridefinisce un modello di comunità ancora nel ’48 denominandola Nomadelfia: dove la fraternità è legge. La fraternità non è un consiglio, è alla base di questo modello. Per varie ragioni e grazie alla nobile Maria Giovanna Albertoni Pirelli (link) che si innamora di questa causa, si trasferiscono in Maremma Toscana nella tenuta da lei donata di 4 chilometri quadrati. Non ci sono cancelli d’ ingresso, recinzioni o altro. È un luogo totalmente libero e aperto. Il loro è un riferimento cristiano ed evangelico che li tiene uniti, aperti ad accogliere tutti portando avanti un modello alternativo che si basa sulla giustizia e sulla sobrietà. All’interno di Nomadelfia non circolano soldi, tutti lavorano, percepiscono uno stipendio, ma il denaro viene messo a disposizione della comunità e al servizio di tutti. Non hanno bisogno di pagare l’affitto, di pagare l’acqua, l’elettricità. Hanno tutto quello che gli serve. Un altro spirito base è l’affidamento di bambini in difficoltà, che sia dai servizi sociali o dal tribunale dei minori. Ogni famiglia quindi è particolarmente numerosa contando mediamente sette, otto, dieci figli, di cui una buona metà biologici e altrettanti in affido. La vita all’interno della comunità è fantastica, divisa in gruppi familiari e in 11 micro villaggetti. Ogni microvillaggetto è denominato gruppo familiare. Ogni gruppo familiare ha una casa centrale dove si svolgono tutte le attività in comune, con attorno delle casette per dormire, composte dalle camere e dai servizi. Ogni gruppo familiare è composto da venticinque, trenta persone, per un totale di circa 300 persone per tutta la comunità. Si relazionano continuamente con l’economia esterna e quindi rapportandosi col denaro, mentre non ne hanno bisogno per le necessità all’interno della tenuta come vestiti, mangiare e tutto il resto, all’insegna della sobrietà. Sembra di essere in una civiltà contadina degli anni passati. Si respira quel concetto di famiglia numerosa dove nessuno è lasciato indietro e dove tutti si occupano di tutti, compreso degli anziani.”
Grazie ad Enrico e alla sua capacità di coglierne l’essenza, ho scoperto l’esistenza di una realtà che sembra impossibile parametrata alla società nella quale viviamo e che sempre di più dimentica i valori cristiani e il concetto base di condivisione e di supporto. E sarà un piacere visitarla e comprenderla ancora più in profondità.
“Ci sono delle contraddizioni anche in Nomadelfia. Ma perchè nella nostra società non ci sono? Ci sono delle limitazioni per esempio sull’uso della televisione particolarmente restrittive. Ma è giusto invece parcheggiare un ragazzino a guardare i cartoni animati come magari facciamo noi per ore e ore? Chi è il più folle? Qual’è la normalità; la nostra? Sono tutte domande che questa realtà ti porta a fare.”
Mi viene da sorridere quando si parla di normalità e della fobia nel volerla recuperare a tutti i costi dopo la pandemia che ci ha colpito a inizio 2020. Perchè se per normalità parliamo di traffico, inquinamento, frenesia, sfruttamento, più ricchezza ai ricchi, più povertà ai poveri, allora abbiamo perso l’opportunità di ritarare il concetto stesso di normalità.
Enrico non è un fotografo professionista. È solo un fotografo straordinario.
Lui è l’esempio di come il talento non sia al nostro servizio, ma a disposizione. Molto spesso la vita ci porta in direzioni diverse da quelle che sono le nostre passioni, le nostre predisposizioni, i nostri talenti. Ma abbiamo sempre l’opportunità di mostrare noi stessi, di comunicare gli altri attraverso il nostro punto di vista. C’è chi lo fa intervistando, chi raccontando mondi ed esperienze in grado di stimolarci a riflettere. È sempre una forma di comunicazione che non sempre viene urlata, ma, come in questo caso, viene descritta con un linguaggio adeguato e ineccepibile che fa del lavoro di Genovesi un lavoro di altissimo spessore stilistico e sociale.