“Io sono molto sportivo. La mia azienda e tutto quello che faccio ha sempre un collegamento con lo sport. Ho fatto l’ISEF e in qualità di insegnante ho conseguito con il massimo dei voti una Maitrise in discipline sportive presso l’Université Claude Bernard di Lione. Ho cinque lauree. Ho fatto tre Olimpiadi nel nuoto e ho giocato a calcio in serie B. Ho fatto tante maratone, mi sono distrutto un ginocchio, non cammino più bene come una volta, ma per me lo sport è sempre stato una filosofia di vita.” Alla domanda su quanto conta l’educazione sportiva nella vita mi risponde senza esitazioni: “Fondamentale! L’educazione sportiva insegna le regole del gioco. Non intese come le regole di uno sport in particolare, ma le regole d’ingaggio. Se si seguono le regole sportive si seguono le regole di un’azienda, che senza regole, non va da nessuna parte”.
Ci colleghiamo via Skype e, da persona che non ha tempo da perdere, affronta l’intervista come fosse una sfida ai blocchi di partenza. Ad ogni domanda è pronto, preparato e deciso a liquidarla per passare ad un’altra, ad un’altra e ad un’altra ancora. Come un metronomo. Sono le 20:10 ed è ancora lucido e rispettoso nel dedicarmi il suo tempo prezioso.
L’educazione sportiva in azienda insegna le regole d’ingaggio
Iniziamo a parlare di talento, ed è d’accordo con me affermando senza ombra di dubbio che il talento è in ognuno di noi: “Il talento è l’espressione massima di ciò che uno ha dentro e che esprime esternamente. Non tutti sanno di averlo però. Molti imprenditori, molti manager cercano nei propri dirigenti i loro talenti. Perchè ognuno di noi ha un talento, ed esce fuori molto spesso attraverso l’esperienza, gli studi o un coach che ti aiuta a trovarlo. Ma non è semplice e rischia di rimanere represso.”
È così. L’ennesima conferma che l’ambiente circostante come la scuola o l’ambiente di lavoro siano fondamentali per permettere a tutti di riconoscersi facendo uscire il meglio da noi stessi. Anche perchè, se non possiamo esprimere i nostri talenti, come facciamo a diventare vincenti? Gli chiedo quindi, quanto importante è vincere.
“Nessuno gareggia per perdere. Ma tutti dobbiamo saper accettare la sconfitta. È molto facile cadere nella vita. Cadiamo perchè siamo piccoli, perchè sbagliamo un esame, perchè ci licenziano. Ma la cosa più difficile è rialzarsi. Se uno impara a rialzarsi ha un futuro. Cadere è normale. Ma molti restano giù e si precludono il futuro senza avere la forza morale e psicologica di reagire.
Su questo punto non c’era il tempo di raccontargli la mia storia imprenditoriale, ma avrei voluto dirgli che se c’è qualcuno che non ha mai smesso di rialzarsi, quello sono io. C’è chi ha ancora il coraggio di chiedermi sommessamente come sta andando Altera Brand, ed essendo passati più di vent’anni (già, roba da guinness dei primati), quando scoprono il mio entusiasmo nel non aver mai smesso di crederci, mi sorridono come può fare un padre nel vedere il proprio figlio tentare per ore di arrampicarsi su di un albero molto più grande di lui.
È il momento di chiedergli qual’è il suo talento. A questo punto alza gli occhi, sorride e mi dice: “Vedere un secondo prima degli altri. Nello studio, nello sport, fin da piccolo, nella mia vita quotidiana, ho sempre avuto questo intuito, questa capacità innata di riconoscere anche le più banali sfumature e di avvantaggiarmene”.
Gli chiedo allora l’importanza e il significato di successo.
“Ci sono persone che nascono ambiziose e persone meno ambiziose. Io sono nato ambizioso e in tutto quello che ho fatto, ho sempre vinto. Ho avuto la fortuna di vincere. Ma ho studiato tanto. Sempre con umiltà. A sedici anni scaricavo le cassette della frutta al mercato per cinquecento lire, un cappuccino e una brioche. Per me questa è la crescita di una persona. Il successo vero mi è stato dato dalla determinazione. Non sono un egocentrico e tengo molto a far crescere la squadra. Ma per crescere, l’azienda deve essere compatta e il capo deve saper dare carta bianca ai dipendenti. Che possono sbagliare; una volta, due volte. Ma alla terza non sbagliano più e alla quarta si ha un uomo in più e un problema in meno.”
Sentire il Dott. Marco Maria Durante parlare in questo modo, con la sua sicurezza e la sua determinazione, me lo fa paragonare ad un allenatore prima della gara. Non contempla la sconfitta. Non contempla l’errore. O meglio lo capisce solo come opportunità di miglioramento. Ma soprattutto ti trasmette quell’energia di chi è con te in ogni momento per farti sentire al sicuro in ogni momento della competizione.
Così faccio una constatazione e gli dico che la sensazione, per i comuni mortali, è che più il livello è alto, e più sembra che i problemi siano minori. E vengo smentito categoricamente: “Le dico solo, e mia moglie lo può testimoniare, che tre o quattro giorni prima di pagare gli stipendi, che sono milioni di euro, io non dormo. Il mio CFO mi aggiorna costantemente, ma le preoccupazioni ci sono. Fare l’imprenditore in Italia oggi, è una delle cose più difficili che uno possa fare. Tant’è che le grandi multinazionali, in Italia, non esistono più delocalizzando in paesi dove si pagano meno imposte. Io ho sessant’anni, e mi rendo conto che le opportunità per i nostri figli sono sempre meno nel nostro paese. All’estero si guadagna di più, hanno un orario più flessibile, e l’elasticità dei licenziamenti e di conseguenza delle assunzioni, permettono di aumentare il rendimento dei lavoratori. Noi tutti, come comunità italiana, paghiamo una situazione davvero difficile.”
Capisco le considerazioni e capisco quanto sia difficile fare impresa a questi livelli (Presidente di La Presse, dal 2006 società per azioni, è tra il più internazionale dei multimedia content provider italiani. In Italia conta 10 sedi, 15 unit all’estero e più di 150 dipendenti) in un paese come il nostro, impantanato da un eccesso di tutela che non tutela ormai più nessuno da troppo tempo.
Ci scrolliamo di dosso questa patina di polvere derivata dalla stagnazione della nostra povera Italia e in chiusura mi ricorda della palestra in azienda e di quanto sia più importante comunicare quest’ultima rispetto a se stesso.
Ci salutiamo; e capisco di aver intervistato un fuoriclasse.