“La mia è una forma di espressione immediata. Sono una persona piuttosto timida e ho sempre cercato un modo per comunicare in differita.”
Osvaldo Casanova è una persona incline all’introversione con la predisposizione all’espansività morale. Insomma; pare abbia un cuore più grande di quanto si possa permettere di comunicare.
Mi piace. Mi affascinano il suo sguardo guardingo, la sua polo abbottonata, i suoi tatuaggi sparsi come adesivi, i suoi silenzi ragionati.
Fatte le presentazioni del caso, e annusati a distanza, gli chiedo quale sia il suo talento. E Osvaldo mi risponde così: “Questa capacità di sintetizzare i soggetti che ritraggo, in pochi segni, è forse quello il mio talento. Ma non so quanto sia un talento, perchè c’ho lavorato parecchio.”
Su questo punto gli faccio notare che attraverso le mie chiacchierate con persone più o meno note, più o meno realizzate, ho scoperto che il talento naturale vale tanto quanto un talento costruito. Anzi. Che lo stesso talento naturale ha bisogno di un lavoro costante per non essere vanificato o sprecato. Su questo tema escono sempre gli stessi nomi, come Balotelli e Cassano, e concordiamo di come abbiano entrambi sprecato delle doti naturali straordinarie.
“Io ho un odio furibondo per chi spreca le occasioni di espressione. Io penso che ogni comunicazione banale sia un’occasione buttata. Io non riesco a comporre qualcosa, senza far passare un messaggio, senza far passare dei valori che mi appartengono. E penso non sia neanche giusto farlo. Ovviamente più ti sbilanci, più rischi di non piacere. Nel momento in cui io faccio una mostra per raccontare i calciatori ribelli, non parlo di Sòcrates perchè è bravo a fare i colpi di tacco. Io detesto gli indifferenti. Ho più rispetto dei partigiani dalla parte opposta della mia, che degli ignavi.” Il suo racconto si sposta sui valori percepiti e da far percepire. Sull’importanza di essere noi stessi e di difendere le nostre idee. Così gli chiedo quanto ha bisogno del riscontro degli altri sul proprio lavoro: “Io molto. Moltissimo. Perchè nasco e rimango di base una persona insicura. La crescita professionale nel nostro campo deriva dal confronto. È il dialogo. La dialettica che ti spinge a crescere. E l’opinione degli altri è fondamentale. Poi io ho forte l’idea di gruppo. Mi piace avere rapporto con la gente e con le persone fidate.”
Dopo questa sua condivisa debolezza (condivisa con la mia), gli chiedo se ha da recriminare, se si sente un vincente. La sua risposta è eloquente, e racchiude una sensazione che provo anch’io, nel profondo: “Ho da recriminare tantissimo. Avrei potuto fare quello che faccio adesso vent’anni prima. Rimpianti ne ho parecchi. Non mi considero un vincente. A parte che mi stanno sulle palle quelli che si definiscono vincenti. Ecco, forse mi posso ritenere un potenziale vincente. Calcisticamente tengo una buona media inglese.”
Amando le metafore sportive e lui campando di questo mi racconta un aneddoto: “Insegno Storia della Pubblicità, e una delle cose che dico subito agli alunni è che uso un sacco di metafore calcistiche, e se non capiscono niente di calcio, devono informarsi. Il calcio è la metafora perfetta. Le storie dei calciatori sono la metafora perfetta delle storie umane. C’è tutto dentro la storia millenaria del calcio. Io non avendo giocato, mi manca l’esperienza dello spogliatoio.” E su questo gli devo dare atto che, nonostante, come si definisce, lui sia un “credente non praticante”, ha colto perfettamente il valore dell’unica esperienza che mi è rimasta nel cuore e nella testa durante tutti i miei anni di calcio. Ricordo pochissimi goal, pochissime partite, pochissime sensazioni dei 20 anni passati nei campi di calcio. Ma, in effetti, riesco a ricordare perfettamente il mio nome scandito dal mister nella lista degli undici in campo, l’odore dell’olio canforato, il rumore dei tacchetti rimbombanti nello spogliatoio, gli scherzi nelle docce, le urla di vittoria e i silenzi della sconfitta. La vestizione, i rimproveri del mister, i consigli dei più vecchi, le consolazione ai più giovani.
“Non sono d’accordo sul fatto che il talento sia in ognuno di noi. Ma se non c’è qualcuno che ci indirizza, se non ci sono i presupposti, fatichiamo a trovarlo, dove è presente. Viviamo un appiattimento delle conoscenze del talento, delle conoscenze in generale. If you want you can. No. non è così. Tutti devono essere messi nelle stesse condizione di poterci provare, ma non tutti possono arrivare al successo.”
Fa bene a farmi notare questo punto, perchè è il fraintendimento di tanti, leggendo la frase TALENT IS IN EVERYONE. In realtà è una comunicazione che vuole dimostrare che ognuno di noi ha delle capacità che deve imparare a riconoscere, ma non per raggiungere fama e successo, ma per vivere facendo quello che gli viene meglio, facendo quello che gli viene facile, facendo quello che lo fa stare bene. In realtà il significato di TALENT IS IN EVERYONE è riconoscere se stessi e trovare il modo di utilizzare il proprio talento per sopravvivere dignitosamente. Nessuno vieta di sognare. Nessuno vieta di sperare in qualcosa di grande. Ma vivendo bene con noi stessi, tutto sarà tarato in funzione alla nostra dimensione e al nostro talento. Niente di più. Niente di meno.
Divaghiamo piacevolmente, viste le nostre competenze in comune in fatto di ruoli e di comunicazione: “Mostriamo una parte di noi. Alla fine mostriamo una maschera. Nessuno di noi si mostra nudo completamente. Nei tatuaggi che hai, nelle scelte che facciamo, nelle immagini che postiamo, creiamo un personaggio. Chi lo fa più consciamente, chi lo fa inconcsciamente. Semplicemente mostri una parte, perchè una parte la vuoi proteggere. Per esempio, tutelo al massimo la mia vita privata. Ma il livello della comunicazione generale si è abbassato molto. I social hanno fatto una cosa bestiale; hanno detto che tutti possono comunicare, e tutti sullo stesso piano. Ben prima dell’uno vale uno, il problema di Facebook l’ho notai quando iniziarono a condividersi i primi meme. Cioè delle immagini con una citazione di tizio o caio. Questo dimostra che stavamo regredendo al geroglifico, ma, soprattutto, che quell’immagine, abbinata ad una frase dei Negramaro o di Kierkegaard, aveva lo stesso peso, diventando tutto un Baci Perugina scritto senza filtri e non certo da professionisti della comunicazione. Le persone hanno perso l’abitudine ad apprezzare l’altro. Ad ammirare l’altro. Una volta se uno parlava meglio di te, veniva apprezzato. Adesso c’è una forma di mimesi: apprezzo chi è come me, cercando di sminuire chi è meglio di me.”
Conclude sottolineando che non è l’uguaglianza la mimesi sopracitata. Questo elogio della mediocrità, non è l’uguaglianza dei diritti per lui sacrosanta, ma un appiattimento verso il basso. E lo nota nella comunicazione politica. Ma questa è un altra storia…
Tanti temi, concatenati, fondamentali. Sia per la ricerca del nostro talento, che per una corretta quantificazione del nostro valore. La comunicazione come ricerca di conferme, i social, come strumento primitivo digitalizzato.
Un bel confronto. Una bella chiacchierata. Grazie Osvaldo Casanova (link)!
#talentisineveryone