#
Ho conosciuto centinaia di professionisti nella mia vita, e di questi molti avevano un ego smisurato con talenti non sempre straordinari e usati come cavalletti.
E poi incontri Matteo Grandi.
Un talento straordinario che, nonostante una Stella Michelin
e la sua giovane età mi dice:
“Ma io non so se ho talento…”.
E prosegue: “Gli altri mi sembrano sempre più bravi. Provi a fare una cosa e non ti riesce e ti metti in discussione… Però alla fine del tunnel, vedo sempre la luce. E quindi mi rialzo. Nonostante le difficoltà. Allora posso dire che forse qualcosa c’è, tutto sommato. Ma sono gli altri a doverlo dire, se ho talento. Non posso essere io a dirmelo. Anzi, se tu pensi di avere talento, è il momento in cui ti fermi.”
Ascolto questo ragazzo e sorrido, perchè ha l’inconsapevolezza del suo talento, e questo suo modo di sminuire quello che fa, è molto probabile sia la sua arma vincente. Non sentirsi all’altezza è un modo per continuare a lavorare, a lottare, a migliorarsi, a studiare. Ma non per dimostrare qualcosa agli altri, ma solamente per essere adeguati a se stessi.
Poi mi dice: “Il talento… no so se sia un bene o un male averlo. Avere talento significa avere anche grandi responsabilità e se ti metti in gioco, sei da solo. Perchè alla fine gira tutto intorno a te. Non è egocentrismo, ma è ovvio che ho la consapevolezza che devo essere io a sostenere il mio progetto professionale.”
Gli chiedo quanto conti il successo: “Il successo conta molto. Altrimenti è davvero difficile andare avanti. Non è un discorso economico. Pensa che noi passiamo dieci, dodici ore al giorno in cucina, per portare il piatto ad un nostro cliente che lo consuma in 5 minuti. Ma lo sguardo del cliente, la soddisfazione che ne deriva, vale più delle dodici ore di lavoro.”
Insisto quindi su questo punto e gli chiedo quando ha capito che stava raggiungendo il successo: “Ah guarda… Io non credo proprio di aver raggiunto il successo. Quando raggiungi le tre stelle e sei uno dei ristoranti migliori al mondo, allora puoi dire di aver raggiunto il successo. Siamo ancora agli inizi. Anche quando mi chiedono qual’è il mio piatto più rappresentativo rispondo che ho trent’anni. Come faccio a parlare del mio piatto rappresentativo a trent’anni. Me lo chiederai a 60 anni il piatto che mi ha stupito di più nella mia vita. Io penso che tante volte si deve dare il tempo all’esperienza di poter rispondere a certe domande.”
Migro l’attenzione sulla sua arte, su cosa possa significare creare un piatto e se è la sua forma di comunicazione, e anche in questo caso, la sua lucida pragmaticità e lucidità mentale mi rispondono a tono: “Ma, non solo. Purtroppo ormai questo lavoro non si basa più solo su un piatto. È un insieme di esperienze. La parte imprenditoriale pesa molto, e la cosa più difficile è creare la brigata. Lo Chef Bartolini, che è lo chef più stellato d’Italia, è riuscito sicuramente ad avere una brigata che lo segue e che gli permette anche di non essere presente in cucina. Questo conta tanto. Io ho due mani. Quando il ristorante è pieno l’esperienza del cliente deve essere comunque al 100%. La brigata è tutto. E devo, passo dopo passo, creare dei piatti replicabili. Ci vuole pazienza e capacità di gestione”.
Concludo con la domanda sul concetto di vincere o perdere e se ha vissuto situazione di sconfitta.
E mi risponde sorridendo così: “Si si, tutti i giorni. E vado a casa nervoso tutte le sere. Non è perchè non sono mai contento, ma perchè vorrei che fosse tutto perfetto. Poi, per essere carichi di nuovo il giorno dopo, bisogna dormir de notte!”
Termina con una battuta e con una risata questa intervista che ha tutto il sapore della genuinità che sono sicuro si riesca a percepire in ogni suo piatto. Viene voglia di abbracciarle le persone come lui. Non so quanto sia saggezza o incoscienza giovanile. Quello che so è che con questa mentalità, è impossibile ci sia qualcosa in grado di fermarlo, e la battaglia sarà lunga, ma pur sempre vincente.